Covid, perché ci si contagia: decisivi carica virale e gruppo sanguigno
Per evitare il contagio dal Sars Cov 2 le misure di precauzione sono prioritarie. Spesso però una buona mano la può dare anche la combinazione di fattori che ci portiamo in dote dalla nascita. Dopo mesi di osservazione dei casi clinici e delle analisi di laboratorio, gli scienziati finalmente stanno venendo a capo non solo dei meccanismi che danno vita all’infezione, ma anche dell’enigma legato alla carica virale, che a volte, seppure alta, lascia l’organismo indenne.
Come spiega Massimo Andreoni, direttore clinica malattie infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali), tutto dipende infatti dall’ospite. “Ci sono persone che eliminano molto virus e altre che ne eliminano poco. Mediamente i soggetti malati, quelli cioè sintomatici, eliminano più virus degli asintomatici”. E quindi, in generale, sono più contagiosi. In realtà, nel rebus del contagio, bisogna invece considerare diverse variabili. “Se è vero infatti che mediamente il più pericoloso è un soggetto sintomatico, rispetto a un asintomatico, questa non è però una regola assoluta. Esistono delle eccezioni, come nel caso dei super spreader, cioè dei supereliminatori, che sono asintomatici”.
Sempre in linea generale, il rischio di contrarre la malattia dipende dalla carica virale. “Quanto più una persona ne riceve, mediamente è più probabile che diventi un sintomatico”. Ma la correlazione tra carica e sintomi non è così scontata. “Una persona con alta carica virale - precisa Andreoni - mediamente tende a essere più grave, ad avere più sintomi” Ma non è una regola assoluta, “tanto è vero che si segnalano anche casi con bassa carica virale ma con sintomi. Ma anche il contrario”. Non c’è dubbio, però, che più Sars Cov 2 si fa entrare nell’organismo, maggiore è il rischio che poi il virus sia dannoso. “Certamente la carica infettante è importante perché, a parità di condizioni immunitarie, chi riceve una carica virale alta avrà maggior possibilità di avere un virus che replica tanto”. I luoghi chiusi affollati sono infatti i più rischiosi. “Lì la carica virale tende ad essere maggiore proprio perché si concentra, all’aperto invece si disperde nell’aria”.
Ma non è solo una questione di quantità. La vera partita la gioca il sistema immunitario. La gravità del Covid “non dipende solo dalla quantità del virus che entra nell’organismo e dà poi la carica virale, ma anche da quanto quell’organismo permette al virus di replicare”. Perché poi il meccanismo non varia: “quanto più quel virus replica, tanto più quella persona formerà molta carica virale”. Che il sistema immunitario sia un valido alleato, lo dimostrano i più piccoli. Infatti, “non solo hanno una quantità inferiore di recettore Ace2, le porte di ingresso del virus nella cellula”, ma dispongono di “un’immunità innata che protegge in maniera generale da tutte le malattie pur non essendo specifica”.
E allora a fare la differenza sui possibili danni per i contagiati non è certamente il Sars Cov 2, che comunque non è per nulla cambiato, quanto le condizioni di chi si ritrova ad ospitarlo. “Una persona con immunodeficienze o con molte fragilità - rimarca Andreoni - pur avendo una carica virale bassa, può essere sintomatico. Per contro, una persona giovane che sta bene, pur avendo una carica virale alta, non presenta manifestazioni. Il gioco si fa sempre con due elementi in campo: quanto virus ti colpisce e qual è la tua condizione in quel momento”.
Ma, a complicare le cose, o anche a migliorarle, possono intervenire fattori non legati né all’età, né alle condizioni di partenza dell’ospite. In effetti, precisa Andreoni, “ci sono persone più predisposte ad infettarsi e persone meno, così come possono esserci soggetti che una volta infettati hanno più facilità a sviluppare la malattia e altri invece no”. E la risposta all’enigma stavolta va cercata nel bagaglio genetico di ciascuno. “La variabilità genetica, tra cui il gruppo sanguigno - precisa infatti Andreoni - ha un ruolo importante su quella che può essere la probabilità di sviluppare una malattia oppure no. Ma ricordiamo sempre che in medicina non esiste nulla di assoluto”.
Riforma della medicina del territorio. “Legge Balduzzi incompiuta ora puntiamo su Case e ospedali di comunità, assistenza domiciliare ‘hi-tech’ e nuove Rsa”. Il Piano del Ministero
di Luciano Fassari
Illustrati in audizione in Commissione Igiene e Sanità da parte dei dirigenti del Ministero della Salute i 4 caposaldi per riformare la medicina del territorio. Una partita che sulla carta richiederà un investimento di oltre 10 miliardi da prendere con le risorse del Recovery Fund. Ecco cosa prevede il piano.
22 OTT - Potenziamento assistenza domiciliare, Case di Comunità, ospedali di comunità e nuovi standard per le Rsa sono queste le direttrici su cui si sta muovendo il Ministero della Salute per riforma la medicina territoriale. Una riforma quella del territorio attesa da anni ma molto difficile. Prova ne è, come ammesso dal Direttore generale delle Professioni sanitarie, Rossana Ugenti intervenendo ieri in audizione in Commissione Igiene e Sanità del Senato, che la Legge Balduzzi del 2012 (che ha introdotto le Aft e le Uccp) di fatto “ad oggi non ha trovato pieno compimento”.
Ma se una riforma del territorio è attesa da anni, è del tutto evidente che la pandemia ha mostrato proprio tutta la debolezza del sistema. E ora con l’arrivo delle risorse del Recovery Fund il Ministero della Salute ha messo in campo nuovi progetti. A illustrare le misure è stato il Dg della Programmazione del Ministero Andrea Urbani, anche lui in audizione alla Commissione Sanità del Senato, in cui ha tracciato le linee guida ministeriali che saranno finanziate con le risorse europee (anche se non si sa quando arriveranno e quante saranno per la sanità ndr.)
“Il Recovery Fund – ha detto Urbani - rappresenta una occasione unica per individuare tale modello e disporre delle risorse necessarie per attuarlo. L'obiettivo è la presa in carico della 'persona'. Ciò significa individuare modelli di stratificazione della popolazione per la presa in carico non solo del paziente cronico ma anche della persona da mantenere in salute”.
Urbani ha illustrato i 4 caposaldi. Si parte dal
potenziamento dell’Assistenza domiciliare su cui oggi possono contare poco più di 1 milione di cittadini in tutta Italia. Il Piano ministeriale si basa su un suo ulteriore potenziamento attraverso l'applicazione delle tecnologie digitali e dell'intelligenza artificiale per incentivare attività di telemonitoraggio e telepresenza dei medici.
“Con il Decreto rilancio – ha ricordato Urbani - si incrementa la copertura degli assistiti dall’attuale 4% al 6,7%„ con questo progetto si punta ad arrivare al 10% facendo dell'Italia il primo Paese in Europa per assistenza agli over 65 (ad oggi le percentuali più alte sono quelle di Germania e Svezia al 9%)”.
Il piano, che dovrebbe costare sui 2 miliardi, come indicato
nelle prime bozze di lavoro sui progetti per il Recovery Fund, prevede tre principali obiettivi da raggiugere attraverso l’IA combinata con la digitalizzazione dell’assistenza domiciliare integrata: 1. monitorare i pazienti ed effettuare le diagnosi a distanza, favorendo ad un’assistenza continuata e continuativa a domicilio del paziente; 2. affrontare le cronicità ed i diversi aspetti ad essa connessi in maniera molto precisa, puntuale e mirata; 3. alimentare un data set di informazioni prezioso per la messa appunto di modelli predittivi utili alla previsione di scenari futuri.
Il Progetto prevede la ristrutturazione di tutti i locali legati al sistema delle cure domiciliari tra i quali, a titoli esemplificativo, i locali per il monitoraggio da remoto, i magazzini per la conservazione dei farmaci, etc. Il progetto consentirà di abbattere i costi sociali dovuti all’istituzionalizzazione dei pazienti, nonché delle loro famiglie, innalzare la qualità delle cure prestate, salvaguardando i legami con i familiari e rafforzando il legame con la comunità di riferimento, salvaguardare il contesto economico per le aree a maggiore invecchiamento demografico tramite il mantenimento dei soggetti anziani non autosufficiente nel loro contesto di vita; sostenere le famiglie con figli disabili nelle loro attività lavorative tramite l’erogazione di prestazioni di sollievo.
Il secondo caposaldo è quello delle Case della Comunità. Il progetto, anch'esso anticipato nelle schede di lavoro per il Recovery Fund, che costerebbe sui 5 miliardi, intende implementare, in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, strutture (Case di comunità) che possano essere un punto di riferimento certo per i cittadini, dove trovare risposta alla maggior parte dei bisogni, attraverso la garanzia dell’accesso e della presa in carico, in integrazione con i professionisti del sociale. In particolare, le strutture devono essere facilmente riconoscibili e raggiungibili dalla popolazione di riferimento, per l’accesso, l’accoglienza e l’orientamento del cittadino. In esse operano comunità di professionisti (équipe multiprofessionali e interdisciplinari), secondo uno stile di lavoro orientato a programmi e percorsi integrati, tra servizi sanitari (territorio-ospedale), e tra servizi sanitari e sociali. Tali strutture rappresentano un nodo della più ampia rete di offerta dei servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali, e al tempo stesso sono parte integrante dei luoghi di vita della comunità locale.
Il modello organizzativo delle Case di Comunità è di due tipi:
1. con bacino di utenza riferito a 10.000 abitanti con il ruolo di Spoke per le aree a bassa densità abitativa e le seguenti funzioni di base che comprendono: medicina generale e pediatri di libera scelta, assistenza specialistica ambulatoriale, ambulatorio infermieristico, attività di diagnostica strumentale di I livello, area dell’accoglienza, sportello CUP, punto unico d’accesso, area della sorveglianza temporanea, area dei servizi sociali.
2. con bacino di utenza riferito a 15.000 abitanti con il ruolo di Hub per le aree a maggiore densità abitativa, a cui, oltre ai servizi di base sopracitati, si aggiungono: assistenza ambulatoriale complessa, ambulatori in connessione alla rete della terapia del dolore e cure palliative. Nelle citate strutture dovranno essere diffusi sistemi di sanità digitale permettendo di governare il percorso clinico dell’assistito, coordinando e mettendole in connessione le diverse strutture e figure professionali. Tale previsione ha lo scopo di migliorare la presa in carico del paziente, l’appropriatezza delle prestazioni e la personalizzazione della cura. Le tecnologie digitali, infatti, realizzano ecosistemi integrati che gestiscono con certezza e rigore il governo centrale dei dati e con altrettanta efficacia il monitoraggio degli assistiti più fragili.
Il Piano ha già però visto la contrarietà dei medici di famiglia su cui non si è ancora sciolto il nodo principale: dovranno continuare in rapporto libero professionale regolato da convenzione o dovranno diventare a tutti gli effetti dipendenti del Ssn. Il dibattito è vivo più che mai ma dalla politica ancora non si è capito bene cosa voglia fare a prescindere dalle dichiarazioni di rito del Ministro della Salute, Roberto Speranza.
Il terzo punto riguarda il potenziamento degli ospedali di comunità “che - ha sottolineato Urbani - permettono di decongestionare gli ospedali e ridurre gli accessi impropri al pronto soccorso”.
Obiettivo generale del progetto, che costerebbe sui 4 miliardi, è garantire in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale l’implementazione di presidi sanitari a degenza breve (15-20 giorni) che svolgano una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero. La realizzazione dei citati presidi deve avvenire in connessione con il sistema delle cure primarie al fine di personalizzare l’assistenza in prossimità del proprio contesto di vita, salvaguardando il disagio psicologico di un ricovero ospedaliero, soprattutto per i soggetti più fragili. Tali presidi a degenza temporanea hanno lo scopo di ridurre l’istituzionalizzazione e l’ospedalizzazione per soggetti con patologie croniche riacutizzate.
I suddetti posti letto sono dedicati a soggetti che necessitano di assistenza infermieristica continuativa e assistenza medica programmata su specifica necessità. I pazienti possono provenire dal domicilio o da altre strutture residenziali, dal Pronto Soccorso o dimessi da presidi ospedalieri per acuti. Le strutture, inoltre, favorendo l’appropriatezza delle prestazioni ospedaliere, hanno lo scopo di facilitare le dimissioni fornendo alla famiglia e ai servizi territoriali il tempo necessario per adeguare gli ambienti domestici alle nuove necessità emerse, salvaguardando i costi sociali e la capacità reddituale delle famiglie che hanno soggetti non autosufficienti nel proprio nucleo.
Le strutture saranno interconnesse con il sistema dei servizi sanitari e sociali, tramite la costituzione di Centrali Operative Territoriali, rafforzando in tal modo gli investimenti digitali sul territorio nazionale tramite lo sviluppo di sistemi per lo scambio di informazioni tra professionisti e valorizzando le competenze disponibili. Le Centrali Operative operano per il coordinamento delle varie forme di offerta territoriale finalizzate alle risposte assistenziali non urgenti sul territorio (numero unico 116117) in modo coerente con i nuovi obiettivi della programmazione nazionale. Vista, inoltre, la capillare diffusione di tali strutture, il progetto consentirà di ridurre le disuguaglianze di salute migliorando nelle aree rurali la salute della popolazione come volano della ripresa economica, nonché contrastando lo spopolamento verso i grandi centri urbani. Il progetto, inoltre, intende valorizzare il ruolo della Farmacia dei Servizi, quale servizio di prossimità a disposizione del cittadino per monitorare l’aderenza alle cure, prevenire le reazioni avverse da farmaci, effettuare campagne di promozione della salute e di screening.
Infine, l’ultimo tassello è l’aggiornamento degli standard delle Rsa. Si prevede (costo stimato 1,5 miliardi sempre indicati nelel schede per il Recovery Fund) di uniformare la capacità ricettiva delle strutture e definire un’organizzazione per moduli differenziati per livello di intensità assistenziale, avendo particolare attenzione a: garantire spazi adeguati agli assistiti (camere, spazi condivisi per la socializzazione, etc); garantire elevati standard di sicurezza e impianti adeguati (dotazione di alcune camere con gas medicali; dotazione di impianti di riscaldamento/raffreddamento a soffitto o a parete; ridefinizione degli standard minimi per ciascuna camera di degenza); garantire spazi dedicati all’assistenza (ambulatori, medicherie, farmacia, locali e palestre per la riabilitazione); garantire aree generali di supporto (ingresso con portineria, posta e telefono, uffici amministrativi, cucina, dispensa e locali accessori, lavanderia e stireria, magazzini, camera ardente, depositi pulito e sporco); attrezzature agli ospiti (letti articolati, sollevatori, materassi e cuscini antidecubito).
Le strutture dovranno ammodernare la dotazione tecnologica garantendo una dotazione di strumentazione diagnostica autonoma e di tele monitoraggio (ECG, Rx portatile, Ecografo, etc), l’utilizzo di device tecnologici per monitoraggio e assistenza (monitor multiparametrici, strumentazione per la riabilitazione, etc), una interconnessione dei dati tale da rendere effettivo l’utilizzo del fascicolo sanitario elettronico visibile a tutti i medici impegnati nell’assistenza e la possibilità da parte degli utenti di disporre di device per la comunicazione con i familiari da remoto.
Per fare tutto ciò ovviamente ci sarà bisogno di personale. Ad oggi per l’emergenza, le cifre le ha sempre formìnite il Dg Urbani in audizione, sono stati stipulati contratti precari a 33.857 unità di cui 6.958 medici e 15.618 infermieri cui si aggiungono ulteriori 11.281 unità di altro personale di cui 7.248 operatori socio sanitari. Ma è chiaro che per una vera riforma, oltre a stabilizzare questo personale servirà ben altro.
Luciano Fassari
22 ottobre 2020