partecipare è libertà

covid-19, il medico: noi come in guerra

28.10.2020 19:14

Coronavirus in Campania, il medico: «Noi come in guerra, costretti a scegliere chi salvare e chi no»

 

Mattino 25 Ottobre 2020


Malati Covid nei corridoi, altri in attesa sulle ambulanze, turni massacranti per medici e infermieri. «Siamo in guerra, e sappiamo che nonostante i nostri sforzi perderemo»: Pietro di Cicco è primario dell'Unità Complessa di Medicina d'Urgenza dell'ospedale San Leonardo di Castellammare. Nell'ambito della riorganizzazione delle strutture dell'Asl Na3 Sud, il nosocomio stabiese è diventato il centro di riferimento sia per la chirurgia sia per le emergenze. Al Maresca di Torre del Greco per fare spazio a letti Covid è stata chiusa la Chirurgia, i medici di Gragnano sono stati spostati a Boscotrecase, a Vico Equense è stato chiuso il pronto soccorso. «Gestiamo in maniera separati percorsi puliti per i malati e quelli sporchi per i positivi, ma non sappiamo più dove curare i pazienti» spiega il primario.



Castellammare non è un Covid Hospital, avete anche pazienti postivi ricoverati?
«Sì, abbiamo destinato a loro un'ala del pronto soccorso. Ci sono decine di pazienti che hanno il Covid ma anche la necessità di essere curati per un femore rotto, per un infarto o dializzati».


Quanti ne avete attualmente?
«In tutto sono 18: di questi, sei hanno gravi deficienze respiratorie e sono attaccati ai ventilatori, sette sono appoggiati nel corridoio con le bombole, gli altri in attesa almeno di poter entrare in reparto, fuori alla porta o sulle ambulanze».


In corridoio ha detto?
«Sì, ed è la migliore assistenza che riusciamo a garantire. Appoggiati su barelle che ci arrivano anche da altri ospedali, alcuni hanno atteso ore per entrare. Non lasciamo nessuno indietro ma siamo consapevoli che più di questo non riusciamo a fare».


Riuscite a gestire tutti gli arrivi?
«Siamo orgogliosi di quello che stiamo facendo, siamo il centro di riferimento della Napoli 3, ma curare significa anche scegliere chi ventilare e chi no».

E avete dovuto scegliere?
«Facciamo l'impossibile per tutti».


Come si organizza il lavoro in emergenza?
«Facciamo turni di 13 ore, ogni giorno provo a motivare il mio personale ma fino a quando riusciremo ad andare avanti così? I miei uomini sono angeli, a fine giornata siamo stremati e sappiamo che quello che facciamo può non bastare».


Mancano mezzi e personale quindi?
«Mezzi, infermieri e medici. Le posso fare io una domanda?»

Dica.
«Fuori cosa si percepisce? Io vorrei far vestire con me un politico o gli scettici per portarli in reparto, basterebbero pochi minuti per comprendere, mi creda».
All'esterno si percepisce che questa ondata non è mortale come la precedente.
«Forse era così in estate. Oggi in reparto ho uomini di 50 anni che senza ventilazione sarebbero morti. I più anziani hanno difficoltà maggiori».


Novembre sarà peggio dello scorso marzo?
«Oggi il contagio è più diffuso e tra una settimana i numeri saranno triplicati. Dobbiamo trattare i positivi prima che debbano andare in rianimazione per dare una speranza concreta a tutti».


Mentre parliamo un'ambulanza dal Covid di Boscotrecase entra in ospedale con un paziente da ricoverare, e dal Comune di Castellammare arriva la notizia di altri 54 positivi.
«Non mi sorprendo, non ci spaventa lavorare, ci spaventa non avere i mezzi per vincere questa guerra».


Cosa è mancato in questi mesi?
«Potevamo fare tutto e prima, ma a livello nazionale. Come noi il direttore della nostra Asl Gennaro Sosto lavora fino a notte, noi siamo con lui in questa guerra, condividiamo affanni e difficoltà. Da medico in prima linea capisco anche le immagini forti che il presidente De Luca ha mostrato in diretta. È proprio così che i polmoni vengono distrutti».

 

 

Coronavirus, D'Andrea: «Io, medico contagiato, vi racconto le falle del sistema sanitario»

 

Domenica 25 Ottobre 2020


Ormai è chiaro: nessuno è immune. Il Covid-19 può colpire chiunque in qualsiasi momento. Pur rispettando tutti i protocolli di sicurezza, basta un solo attimo per essere contagiati. In questo momento la Società italiana di Chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica, nella figura del suo presidente, il napoletano Francesco D’Andrea, direttore del reparto di Chirurgia plastica dell'azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli, lancia un monito al Governo e, in particolare, al ministero della salute affinché si possano continuare a curare e operare i pazienti non affetti da Covid, garantendo al tempo stesso massima sicurezza e tutela al paziente.


Proprio D’Andrea, che vive e lavora a Napoli, esce ora vittorioso dalla sua battaglia contro il virus e la racconta pubblicamente. La sua è una storia come tante altre, ma le difficoltà e le falle del sistema sanitario raccontate da chi ogni giorno indossando un camice bianco salva vite umane, rendono la situazione ancor più preoccupante: «Ho vissuto in prima persona, fortunatamente in una forma gestita a livello domiciliare, il caos che si accompagna al Covid. Difficoltà di raccordo con Asl e medici di base, incertezza sulle indicazioni terapeutiche da adattare alla sintomatologia, assenza della messa in essere del tracciamento dei contatti, cosa quest’ultima che per coscienza ho svolto a titolo personale. Ho scoperto solo successivamente, per caso, che esiste un protocollo terapeutico istituito dalla Regione e scaricabile dal sito ufficiale dell’ente per gestire i pazienti Covid, sintomatici e asintomatici, in cura domiciliare, ma evidentemente non tutti i medici da base ne sono a conoscenza».

Un appello dunque alla politica, di qualunque ideologia sia, come ai Governi di qualunque colore siano, a «indicare le giuste linee guida e a non mandare tutti allo sbaraglio». Si attendono in queste ore l’ordinanza del governatore De Luca, che ha richiesto al Governo il totale lockdown per la Campania per 30-40 giorni e il nuovo Dpcm del premier Conte. «Il numero dei contagi è in continua crescita - continua D’Andrea - e la gestione del Covid sempre più preoccupante. Non sono un negazionista, un riduzionista né un terrorista, semplicemente un realista. Oggi la malattia è più gestibile e i numeri di casi gravi sono percentualmente ridotti rispetto alla scorsa primavera. Un dato quest’ultimo ovviamente incoraggiante. Il problema è l’alta contagiosità e la crescita esponenziale degli infetti».

«Se è vero che oggi rispetto alla fase 1 si muore di meno - sottolinea ancora il presidente Sicure - perché la terapie sono più efficaci anche per i casi più gravi, è vero anche che per questi ultimi per guarire è necessario il ricovero in una struttura ospedaliera. Ed è proprio qui che emerge la criticità.  Se le istituzioni si fossero mosse per tempo e avessero previsto un incremento di posti letti intesivi e sub-intensivi e l’assunzione di operatori sanitari per la carenza cronica del nostro sistema, oggi non parleremmo di lockdown, in quanto per tutti sarebbe garantita l’assistenza adeguata».

«Mi rendo disponibile in prima persona a incontrare i vertici sia del nostro Governo che della Regione Campania, quella in cui vivo e lavoro - annuncia D’Andrea - dopo l’esperienza vissuta e quella che vedo quotidianamente, per dare un mio personale contributo. La seconda ondata della pandemia poteva essere arginata e non farci trovare - a ridosso della consueta epidemia influenzale come ogni anno - ad affrontare ora una situazione sanitaria al tracollo», conclude.

 

Ex Forlanini, i padiglioni vanno al San Camillo: la Regione punta su una concessione di sei anni

Costeranno 236mila euro l’anno i sei padiglioni dell’ex Forlanini. Il San Camillo aveva già iniziato ad usarli. Santori: “Canone irrisorio per spazi che potevano essere usati per gestire la pandemia”

Ex Forlanini, i padiglioni vanno al San Camillo: la Regione punta su una concessione di sei anni

Una concessione di sei anni per gestire una parte dell’ex Forlanini. La Regione Lazio ha deciso di puntare sull’Azienda ospedaliera San Camillo Forlanini, per mantenere in vita alcuni padiglioni dell’ospedale nato per gestire le patologie polmonari.

Nei padiglioni gli uffici del San Camillo

In realtà il San Camillo già da alcuni anni sta occupando delle superfici dell’ex Forlanini. Si tratta di circa 18mila metri quadrati utilizzati all’interno di sei padiglioni (S,T,A,C,G ed H). Sono stati finora utilizzati, e lo saranno anche n futuro, perché quella è la funzione che assegna a questi spazi la legge regionale n.4 del 28 aprile 2006. Quei locali, secondo la normativa regionale, sono infatti “destinati allo svolgimento sia delle attività istituzionali che di quelle di natura sanitaria ed amministrativa” del San Camillo. 

I costi della concessione

L’ente governato da Zingaretti, con un’apposita delibera, ha chiesto di regolarizzare la concessione. Per farlo l’azienda San Camillo Forlanini dovrà versare per gli ultimi 5 anni, la somma di 1 milione e 135mila euro. Se lo farà, ed è del tutto probabile che lo faccia, potrà continuare ad utilizzarli per i prossimi sei anni ad un costo di 236mila euro. Si tratta di importi contenuti, se rapportati alle superfici. 

“Sono somme modeste – ha osservato Fabrizio Santori, dirigente regionale della Lega – ma soprattutto va posto l’accento sulla gestione dell’ex Forlanini nel suo insieme. Poteva essere impiegato come cabina di regia, durante le fasi più difficili dell’emergenza Covid. Invece, anziché tornare ad investire sull’antica funzione di quell’ospedale, la Regione ha puntato sulle strutture sanitarie private, creando a mio avviso anche un evidente danno erariale”.

Perchè è stato dismesso

Il destino del Forlanini da molti anni è al centro di un dibattito. L’ospedale, acquistato dalla Regione nel 2015, è stato dismesso nell’ambito dei tagli che Zingaretti, nominato commissario ad acta, ha dovuto effettuare sul settore sanitario. L’ex Forlanini, secondo l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, che nel 2014 ne aveva analizzato i bilanci, avevano causato un buco da 158 milioni di euro. Da lì la decisione di rinunciare all’ospedale.

C'era una volta il Forlanini

I numeri dell'ex ospedale

Il Forlanini, che nei suoi 170mila metri quadrati di superficie, ospitava circa 800 posti letto, vari laboratori e poliambulatori, distribuiti tra il blocco centrale ed i padiglioni di via Folchi. Aveva anche un'unità di crisi per cure residenziali intensive per post comatosi nel 2011 ed all’interno del suo perimetro erano presenti anche un teatro, un museo di anatomia e anatomo patologia ed un parco dotato di prestigiose specie botaniche.

 

Covid, perché ci si contagia: decisivi carica virale e gruppo sanguigno



Per evitare il contagio dal Sars Cov 2 le misure di precauzione sono prioritarie. Spesso però una buona mano la può dare anche la combinazione di fattori che ci portiamo in dote dalla nascita. Dopo mesi di osservazione dei casi clinici e delle analisi di laboratorio, gli scienziati finalmente stanno venendo a capo non solo dei meccanismi che danno vita all’infezione, ma anche dell’enigma legato alla carica virale, che a volte, seppure alta, lascia l’organismo indenne.


Come spiega Massimo Andreoni, direttore clinica malattie infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali), tutto dipende infatti dall’ospite. “Ci sono persone che eliminano molto virus e altre che ne eliminano poco. Mediamente i soggetti malati, quelli cioè sintomatici, eliminano più virus degli asintomatici”. E quindi, in generale, sono più contagiosi. In realtà, nel rebus del contagio, bisogna invece considerare diverse variabili. “Se è vero infatti che mediamente il più pericoloso è un soggetto sintomatico, rispetto a un asintomatico, questa non è però una regola assoluta. Esistono delle eccezioni, come nel caso dei super spreader, cioè dei supereliminatori, che sono asintomatici”. 

Sempre in linea generale, il rischio di contrarre la malattia dipende dalla carica virale. “Quanto più una persona ne riceve, mediamente è più probabile che diventi un sintomatico”. Ma la correlazione tra carica e sintomi non è così scontata. “Una persona con alta carica virale - precisa Andreoni - mediamente tende a essere più grave, ad avere più sintomi” Ma non è una regola assoluta, “tanto è vero che si segnalano anche casi con bassa carica virale ma con sintomi. Ma anche il contrario”. Non c’è dubbio, però, che più Sars Cov 2 si fa entrare nell’organismo, maggiore è il rischio che poi il virus sia dannoso. “Certamente la carica infettante è importante perché, a parità di condizioni immunitarie, chi riceve una carica virale alta avrà maggior possibilità di avere un virus che replica tanto”. I luoghi chiusi affollati sono infatti i più rischiosi. “Lì la carica virale tende ad essere maggiore proprio perché si concentra, all’aperto invece si disperde nell’aria”.

Ma non è solo una questione di quantità. La vera partita la gioca il sistema immunitario. La gravità del Covid “non dipende solo dalla quantità del virus che entra nell’organismo e dà poi la carica virale, ma anche da quanto quell’organismo permette al virus di replicare”. Perché poi il meccanismo non varia: “quanto più quel virus replica, tanto più quella persona formerà molta carica virale”. Che il sistema immunitario sia un valido alleato, lo dimostrano i più piccoli. Infatti, “non solo hanno una quantità inferiore di recettore Ace2, le porte di ingresso del virus nella cellula”, ma dispongono di “un’immunità innata che protegge in maniera generale da tutte le malattie pur non essendo specifica”.

E allora a fare la differenza sui possibili danni per i contagiati non è certamente il Sars Cov 2, che comunque non è per nulla cambiato, quanto le condizioni di chi si ritrova ad ospitarlo. “Una persona con immunodeficienze o con molte fragilità - rimarca Andreoni - pur avendo una carica virale bassa, può essere sintomatico. Per contro, una persona giovane che sta bene, pur avendo una carica virale alta, non presenta manifestazioni. Il gioco si fa sempre con due elementi in campo: quanto virus ti colpisce e qual è la tua condizione in quel momento”.

Ma, a complicare le cose, o anche a migliorarle, possono intervenire fattori non legati né all’età, né alle condizioni di partenza dell’ospite. In effetti, precisa Andreoni, “ci sono persone più predisposte ad infettarsi e persone meno, così come possono esserci soggetti che una volta infettati hanno più facilità a sviluppare la malattia e altri invece no”. E la risposta all’enigma stavolta va cercata nel bagaglio genetico di ciascuno. “La variabilità genetica, tra cui il gruppo sanguigno - precisa infatti Andreoni - ha un ruolo importante su quella che può essere la probabilità di sviluppare una malattia oppure no. Ma ricordiamo sempre che in medicina non esiste nulla di assoluto”.

 

 

Riforma della medicina del territorio. “Legge Balduzzi incompiuta ora puntiamo su Case e ospedali di comunità, assistenza domiciliare ‘hi-tech’ e nuove Rsa”. Il Piano del Ministero

di Luciano Fassari

Illustrati in audizione in Commissione Igiene e Sanità da parte dei dirigenti del Ministero della Salute i 4 caposaldi per riformare la medicina del territorio. Una partita che sulla carta richiederà un investimento di oltre 10 miliardi da prendere con le risorse del Recovery Fund. Ecco cosa prevede il piano.

22 OTT - Potenziamento assistenza domiciliare, Case di Comunità, ospedali di comunità e nuovi standard per le Rsa sono queste le direttrici su cui si sta muovendo il Ministero della Salute per riforma la medicina territoriale. Una riforma quella del territorio attesa da anni ma molto difficile. Prova ne è, come ammesso dal Direttore generale delle Professioni sanitarie, Rossana Ugenti intervenendo ieri in audizione in Commissione Igiene e Sanità del Senato, che la Legge Balduzzi del 2012 (che ha introdotto le Aft e le Uccp) di fatto “ad oggi non ha trovato pieno compimento”.
 
Ma se una riforma del territorio è attesa da anni, è del tutto evidente che la pandemia ha mostrato proprio tutta la debolezza del sistema. E ora con l’arrivo delle risorse del Recovery Fund il Ministero della Salute ha messo in campo nuovi progetti. A illustrare le misure è stato il Dg della Programmazione del Ministero Andrea Urbani, anche lui in audizione alla Commissione Sanità del Senato, in cui ha tracciato le linee guida ministeriali che saranno finanziate con le risorse europee (anche se non si sa quando arriveranno e quante saranno per la sanità ndr.)

 
“Il Recovery Fund – ha detto Urbani - rappresenta una occasione unica per individuare tale modello e disporre delle risorse necessarie per attuarlo. L'obiettivo è la presa in carico della 'persona'. Ciò significa individuare modelli di stratificazione della popolazione per la presa in carico non solo del paziente cronico ma anche della persona da mantenere in salute”.
 
Urbani ha illustrato i 4 caposaldi. Si parte dal potenziamento dell’Assistenza domiciliare su cui oggi possono contare poco più di 1 milione di cittadini in tutta Italia. Il Piano ministeriale si basa su un suo ulteriore potenziamento attraverso l'applicazione delle tecnologie digitali e dell'intelligenza artificiale per incentivare attività di telemonitoraggio e telepresenza dei medici.
 
“Con il Decreto rilancio – ha ricordato Urbani - si incrementa la copertura degli assistiti dall’attuale 4% al 6,7%„ con questo progetto si punta ad arrivare al 10% facendo dell'Italia il primo Paese in Europa per assistenza agli over 65 (ad oggi le percentuali più alte sono quelle di Germania e Svezia al 9%)”.
 
Il piano, che dovrebbe costare sui 2 miliardi, come indicato nelle prime bozze di lavoro sui progetti per il Recovery Fund, prevede tre principali obiettivi da raggiugere attraverso l’IA combinata con la digitalizzazione dell’assistenza domiciliare integrata: 1. monitorare i pazienti ed effettuare le diagnosi a distanza, favorendo ad un’assistenza continuata e continuativa a domicilio del paziente; 2. affrontare le cronicità ed i diversi aspetti ad essa connessi in maniera molto precisa, puntuale e mirata; 3. alimentare un data set di informazioni prezioso per la messa appunto di modelli predittivi utili alla previsione di scenari futuri.
 
Il Progetto prevede la ristrutturazione di tutti i locali legati al sistema delle cure domiciliari tra i quali, a titoli esemplificativo, i locali per il monitoraggio da remoto, i magazzini per la conservazione dei farmaci, etc. Il progetto consentirà di abbattere i costi sociali dovuti all’istituzionalizzazione dei pazienti, nonché delle loro famiglie, innalzare la qualità delle cure prestate, salvaguardando i legami con i familiari e rafforzando il legame con la comunità di riferimento, salvaguardare il contesto economico per le aree a maggiore invecchiamento demografico tramite il mantenimento dei soggetti anziani non autosufficiente nel loro contesto di vita; sostenere le famiglie con figli disabili nelle loro attività lavorative tramite l’erogazione di prestazioni di sollievo.
 
Il secondo caposaldo è quello delle Case della Comunità. Il progetto, anch'esso anticipato nelle schede di lavoro per il Recovery Fund, che costerebbe sui 5 miliardi, intende implementare, in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, strutture (Case di comunità) che possano essere un punto di riferimento certo per i cittadini, dove trovare risposta alla maggior parte dei bisogni, attraverso la garanzia dell’accesso e della presa in carico, in integrazione con i professionisti del sociale. In particolare, le strutture devono essere facilmente riconoscibili e raggiungibili dalla popolazione di riferimento, per l’accesso, l’accoglienza e l’orientamento del cittadino. In esse operano comunità di professionisti (équipe multiprofessionali e interdisciplinari), secondo uno stile di lavoro orientato a programmi e percorsi integrati, tra servizi sanitari (territorio-ospedale), e tra servizi sanitari e sociali. Tali strutture rappresentano un nodo della più ampia rete di offerta dei servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali, e al tempo stesso sono parte integrante dei luoghi di vita della comunità locale.
 
Il modello organizzativo delle Case di Comunità è di due tipi:
1. con bacino di utenza riferito a 10.000 abitanti con il ruolo di Spoke per le aree a bassa densità abitativa e le seguenti funzioni di base che comprendono: medicina generale e pediatri di libera scelta, assistenza specialistica ambulatoriale, ambulatorio infermieristico, attività di diagnostica strumentale di I livello, area dell’accoglienza, sportello CUP, punto unico d’accesso, area della sorveglianza temporanea, area dei servizi sociali.

2. con bacino di utenza riferito a 15.000 abitanti con il ruolo di Hub per le aree a maggiore densità abitativa, a cui, oltre ai servizi di base sopracitati, si aggiungono: assistenza ambulatoriale complessa, ambulatori in connessione alla rete della terapia del dolore e cure palliative. Nelle citate strutture dovranno essere diffusi sistemi di sanità digitale permettendo di governare il percorso clinico dell’assistito, coordinando e mettendole in connessione le diverse strutture e figure professionali. Tale previsione ha lo scopo di migliorare la presa in carico del paziente, l’appropriatezza delle prestazioni e la personalizzazione della cura. Le tecnologie digitali, infatti, realizzano ecosistemi integrati che gestiscono con certezza e rigore il governo centrale dei dati e con altrettanta efficacia il monitoraggio degli assistiti più fragili.
 
Il Piano ha già però visto la contrarietà dei medici di famiglia su cui non si è ancora sciolto il nodo principale: dovranno continuare in rapporto libero professionale regolato da convenzione o dovranno diventare a tutti gli effetti dipendenti del Ssn. Il dibattito è vivo più che mai ma dalla politica ancora non si è capito bene cosa voglia fare a prescindere dalle dichiarazioni di rito del Ministro della Salute, Roberto Speranza.
 
Il terzo punto riguarda il potenziamento degli ospedali di comunità “che - ha sottolineato Urbani - permettono di decongestionare gli ospedali e ridurre gli accessi impropri al pronto soccorso”.
 
Obiettivo generale del progetto, che costerebbe sui 4 miliardi, è garantire in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale l’implementazione di presidi sanitari a degenza breve (15-20 giorni) che svolgano una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero. La realizzazione dei citati presidi deve avvenire in connessione con il sistema delle cure primarie al fine di personalizzare l’assistenza in prossimità del proprio contesto di vita, salvaguardando il disagio psicologico di un ricovero ospedaliero, soprattutto per i soggetti più fragili. Tali presidi a degenza temporanea hanno lo scopo di ridurre l’istituzionalizzazione e l’ospedalizzazione per soggetti con patologie croniche riacutizzate.
 
I suddetti posti letto sono dedicati a soggetti che necessitano di assistenza infermieristica continuativa e assistenza medica programmata su specifica necessità. I pazienti possono provenire dal domicilio o da altre strutture residenziali, dal Pronto Soccorso o dimessi da presidi ospedalieri per acuti. Le strutture, inoltre, favorendo l’appropriatezza delle prestazioni ospedaliere, hanno lo scopo di facilitare le dimissioni fornendo alla famiglia e ai servizi territoriali il tempo necessario per adeguare gli ambienti domestici alle nuove necessità emerse, salvaguardando i costi sociali e la capacità reddituale delle famiglie che hanno soggetti non autosufficienti nel proprio nucleo.
 
Le strutture saranno interconnesse con il sistema dei servizi sanitari e sociali, tramite la costituzione di Centrali Operative Territoriali, rafforzando in tal modo gli investimenti digitali sul territorio nazionale tramite lo sviluppo di sistemi per lo scambio di informazioni tra professionisti e valorizzando le competenze disponibili. Le Centrali Operative operano per il coordinamento delle varie forme di offerta territoriale finalizzate alle risposte assistenziali non urgenti sul territorio (numero unico 116117) in modo coerente con i nuovi obiettivi della programmazione nazionale. Vista, inoltre, la capillare diffusione di tali strutture, il progetto consentirà di ridurre le disuguaglianze di salute migliorando nelle aree rurali la salute della popolazione come volano della ripresa economica, nonché contrastando lo spopolamento verso i grandi centri urbani. Il progetto, inoltre, intende valorizzare il ruolo della Farmacia dei Servizi, quale servizio di prossimità a disposizione del cittadino per monitorare l’aderenza alle cure, prevenire le reazioni avverse da farmaci, effettuare campagne di promozione della salute e di screening.
 
Infine, l’ultimo tassello è l’aggiornamento degli standard delle Rsa. Si prevede (costo stimato 1,5 miliardi sempre indicati nelel schede per il Recovery Fund) di uniformare la capacità ricettiva delle strutture e definire un’organizzazione per moduli differenziati per livello di intensità assistenziale, avendo particolare attenzione a: garantire spazi adeguati agli assistiti (camere, spazi condivisi per la socializzazione, etc); garantire elevati standard di sicurezza e impianti adeguati (dotazione di alcune camere con gas medicali; dotazione di impianti di riscaldamento/raffreddamento a soffitto o a parete; ridefinizione degli standard minimi per ciascuna camera di degenza); garantire spazi dedicati all’assistenza (ambulatori, medicherie, farmacia, locali e palestre per la riabilitazione); garantire aree generali di supporto (ingresso con portineria, posta e telefono, uffici amministrativi, cucina, dispensa e locali accessori, lavanderia e stireria, magazzini, camera ardente, depositi pulito e sporco); attrezzature agli ospiti (letti articolati, sollevatori, materassi e cuscini antidecubito).
 
Le strutture dovranno ammodernare la dotazione tecnologica garantendo una dotazione di strumentazione diagnostica autonoma e di tele monitoraggio (ECG, Rx portatile, Ecografo, etc), l’utilizzo di device tecnologici per monitoraggio e assistenza (monitor multiparametrici, strumentazione per la riabilitazione, etc), una interconnessione dei dati tale da rendere effettivo l’utilizzo del fascicolo sanitario elettronico visibile a tutti i medici impegnati nell’assistenza e la possibilità da parte degli utenti di disporre di device per la comunicazione con i familiari da remoto.
 
Per fare tutto ciò ovviamente ci sarà bisogno di personale. Ad oggi per l’emergenza, le cifre le ha sempre formìnite il Dg Urbani in audizione, sono stati stipulati contratti precari a 33.857 unità di cui 6.958 medici e 15.618 infermieri cui si aggiungono ulteriori 11.281 unità di altro personale di cui 7.248 operatori socio sanitari. Ma è chiaro che per una vera riforma, oltre a stabilizzare questo personale servirà ben altro.
 
Luciano Fassari

22 ottobre 2020
 
 
   

 

 

Tamponi per tutti e mezzi gratis: così il Lussemburgo affronta il virus

di Letizia Pezzali
 
Il piccolo Paese europeo ha cento volte meno abitanti dell'Italia. Per chi ci vive, però, il Covid fa paura come da qualsiasi altra parte
25 Ottobre 2020 4 minuti di lettura
 
 
 
 
 
Il Lussemburgo è piccolo, molto piccolo. Per la precisione, con 613 mila abitanti è cento volte più piccolo dell’Italia. Negli ultimi mesi questa informazione di poco conto, minuta anch’essa, è diventata per noi una specie di pallina antistress: confrontare la situazione in Italia, il nostro Paese d’origine, con quella del Paese dove risiediamo da qualche tempo, effettuando calcoli veloci, alla portata di un cervello stanco.
Dall’inizio della pandemia qui ci sono state 141 vittime (moltiplicando per cento è come dire 14.100 in Italia), ossia poco più dell’1% del totale dei casi confermati. Il numero di test giornalieri è sempre stato molto elevato e, al momento, in proporzione rispetto alla popolazione è più o meno cinque volte il numero italiano. Questo spiega, insieme all’assenza di problemi (finora) nella gestione delle terapie intensive, la minore mortalità relativa registrata in Lussemburgo, che nei mesi passati ha potuto anche accogliere pazienti da altri Paesi nei propri ospedali.

Ora ci troviamo nel pieno di una nuova ondata: sono stati raggiunti i 500 casi al giorno. "Tradotti in italiano” sarebbero 50 mila. Numeri spaventosi, e in crescita. Ogni pomeriggio, sul tardi, si ripete il rito del bollettino, come ovunque. E noi confrontiamo, cerchiamo di capire. Calcoliamo. Un gesto che forse non ha utilità alcuna, che ha un’apparenza fredda ma un cuore disperato. Che somiglia, insomma, a tutte le cose che facciamo per dare un senso a un anno incomprensibile. Guardare i dati, sbuffare per l’ansia e uscire a camminare nella foresta. Qui per fortuna c’è tanta foresta: può capitare di pensare: “Forse potrei perdermi fra gli alberi di Bambësch”. Un pensiero che non ci fa paura, ma che osserviamo come un oggetto mai visto, dall’aspetto singolare. Se prendiamo invece la strada della campagna, a Strassen, incontriamo le mucche - e allora la pace esplode in noi mentre ci perdiamo non fra gli alberi, ma negli occhi dei bovini. Molto sereni.

Quando in Italia era peggio rispetto a qui eravamo depressi pensando ai nostri cari. Quando qui i casi sono esplosi e in Italia si sono un po’ ridimensionati siamo stati depressi pensando alla nostra condizione di espatriati nel caos. Ora che la situazione ha preso una brutta piega in ogni dove siamo depressi pensando a qualsiasi cosa. O forse non siamo più depressi. Non si capisce bene. La distanza fisica protratta rende incalcolabili i sentimenti. La nebbia pandemica offusca la nostra vita interiore.  “A Natale staremo qui o torneremo in Italia?”. Perché noi vorremmo tornare in Italia. Altrimenti piangeremo senza lacrime.

Una cosa da fare quando si parla del Lussemburgo, oltre a dire che è piccolo, è ricordare che si tratta di un Paese ricco. Il denaro ha sempre un’importanza straordinaria, a maggior ragione quando le cose vanno male. Hai un problema? Puoi dare un po’ di denaro in pasto al problema. ll problema lo mangia e se ne va. Davvero? Ovviamente no. Fronteggiare il virus in un Paese ricco e piccolo è certo più semplice: i soldi ci sono, appunto, gli abitanti da mettere d’accordo sono pochi, il territorio è omogeneo. Non solo: qui c’è una buona cultura dello stato sociale, la sanità pubblica funziona, è essenzialmente gratuita e di alta qualità. Così come tutto ciò che è pubblico. I trasporti sono gratis, una decisione presa prima della pandemia, per ragioni ecologiche. Autobus e tram puliti, puntuali, belli da guardare, mai affollati. E ora non serve neppure il biglietto. Però nessun uomo è un isola. Nenche il Lussemburgo è un’isola: è incastonato fra altri Paesi. Come ti giri varchi un confine e sei in un Paese grosso, complicato, "vero". Chi non abita in Lussemburgo lo considera un luogo non proprio vero, chi ci abita lo considera verissimo, ma come si fa a spiegare? In pochi minuti sei in Francia, in Germania, in Belgio. Molte persone dunque lavorano qui. Vengono la mattina dall’estero adiacente, in automobile. Ma anche da più lontano: ogni giorno atterrano molti aerei all’aeroporto di Findel. E allora gli altri Paesi diventano parte del Lussemburgo, c’è osmosi quotidiana, mescolanza di persone, qui si vuole molto bene all’idea di movimento. Il Lussemburgo è fra i cuori dell’Europa. Questo complica la gestione della pandemia: un porto di mare senza mare.

Si diceva che sono stati fatti e tutt’ora si fanno moltissimi tamponi. I numeri dei contagi sono alti, ma il governo si affretta a specificare che se fai molti test, trovi molti casi. E in fondo non ci dispiacciono questi politici che dicono cose semplici e razionali. L’adozione precoce di una strategia di test su vasta scala, offerti gratuitamente dallo Stato, è forse la misura più rassicurante. Ti invitano con una lettera: puoi presentarti entro il giorno tale, nel posto tale, e volontariamente sottoporti a un tampone. Il test “diventa un gesto di solidarietà”, dice il sito del governo.

Poi le restrizioni. Il lockdown in primavera, ma senza regole molto precise di movimento come in Italia (i “duecento metri da casa” non sono stati imposti, e in generale ci si è affidati al buon comportamento dei cittadini). I casi sono scesi, è arrivata la riapertura. Anche delle scuole: a fine maggio per qualche settimana, con disinfettanti, obbligo di mascherina, classi con numero massimo, gruppi alternati. È stata una prova, è andata bene.

L’estate ha visto il Paese svuotarsi un po’, molto meno rispetto agli anni passati. Il governo ha tentato di convincere la popolazione che era bello fare le ferie in Lussemburgo, visitare i luoghi ameni - che, per carità, ci sono. Ma insomma, si diceva, il posto è piccolo. L’estate ha anche visto un po’ di feste pericolose. Giovani, tanti giovani che si sono trovati di notte nella foresta a fare cose che immaginiamo divertentissime. E contrarie al buonsenso. Focolai fra gli alberi di Bambësch. Nel corso della pandemia abbiamo capito che nessun Paese contiene cittadini perfettamente virtuosi. E se vuoi la democrazia, con questo ti devi confrontare. Non c’è differenza culturale che tenga, non c’è latitudine. La paura, e così la negazione della stessa, sono profondamente umane, universalmente umane.

A settembre ecco il rientro, la scuola a pieno ritmo, mai messa in dubbio, sebbene sempre con le mascherine e i disinfettanti. I casi sono risaliti. Non è colpa della scuola: è colpa di un po’ di tutto, alla fine. Come ovunque. Ora il Governo ha introdotto dopo molte esitazioni un coprifuoco dalle 23 alle 6, e una “regola del quattro”: è possibile trovarsi al massimo in gruppi di quattro persone non conviventi, in casa e fuori. Altrimenti, mascherine. E se si è più di dieci, mascherine e distanza di due metri. Il cittadino è invitato a tenere a mente tutti gli scenari. Basterà?

Sarebbe bello essere robusti. Anzi, meglio: antifragili, cioè capaci di prosperare nel disordine della pandemia. Invece il virus prospera, muta facendo errori, e negli errori rafforza la sua posizione. E noi, fragili, facciamo i nostri calcoli, moltiplichiamo e dividiamo, usciamo e prendiamo la via della foresta, dove speriamo di non incontrare nessuno. Di proteggerci. La stessa foresta dove invece a un certo punto forse incontreremo tutti.

L'autrice ha scritto "Amare tutto" per Einaudi Stile Libero.
 
 
   
 
   

 

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