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Brescia: Operaio picchiato dalla polizia locale

26.10.2020 19:49

Brescia: Operaio picchiato dalla polizia locale

  • ottobre 19, 2020

La denuncia di Younes ai microfoni di Radio Onda d’Urto

“In caserma mi ha sbattuto la testa contro l’armadio della stanzetta in cui mi ha portato per la perquisizione e dove mi ha fatto spogliare. Tra sberle e pugni mi urlava ‘parla, parla adesso!’. Io gli chiedevo di spiegarmi cosa avessi fatto e perchè si stesse comportando così”.

Younes è operaio addetto al controllo qualità in una ditta di Berlingo (provincia di Brescia) e residente nel quartiere popolare di Fiumicello, nella zona ovest della città. Giovedì 15 ottobre, come ogni giorno dopo il lavoro, insieme alla moglie è andato a prendere i suoi figli all’uscita da scuola e, insieme, si sono recati in un bar di via Bevilacqua per fare merenda. E’ qui che a un certo punto due agenti della Polizia Locale si avvicinano ai tavolini e uno dei due si rivolge immediatamente a Younes con fare minaccioso chiedendogli di fornire i documenti. Una volta ottenuti i documenti, l’agente intima all’uomo di mettere le mani al muro per essere perquisito. A questo punto Younes, oltre a chiedere agli agenti il motivo di quanto stava accadendo, senza ottenere risposte, chiede di non essere perquisito davanti ai propri figli e alle molte persone presenti e di potersi spostare altrove. “Frequento il quartiere, le persone mi conoscono”, commenta Younes. Gli agenti allora lo portano alla volante, lo fanno salire e Younes svuota le proprie tasche sui sedili posteriori della vettura. Per farlo scendere dalla vettura  l’agente in questione (già segnalato in passato, da altre persone, per comportamenti simili) lo ha  strattonato violentemente, prendendolo anche per il collo e trascinandolo per terra (come si vede in un video girato dalla moglie di Younes con il proprio smartphone per documentare quanto stava accadendo).

Dopo questa perquisizione che non ha portato a nulla, gli agenti hanno deciso di portare Younes in caserma, in via Donegani, sempre senza informarlo del motivo (nonostante lui lo chiedesse in continuazione). Alla centrale della Polizia Locale di Brescia sono proseguite le violenze, secondo la testimonianza di Younes. Lo stesso agente che lo aveva strattonato e perquisito davanti a moglie e figli, nelle stanze di sicurezza lo ha picchiato. “Dopo due ore e mezza o tre che mi tenevano in caserma mi ha detto che avevano sbagliato persona e che dopo dieci minuti sarei andato a casa. Però ha anche aggiunto che siccome mia moglie ha fatto il video mi hanno dovuto denunciare, non ho capito se per violenza o per resistenza a pubblico ufficiale”, racconta Younes.

“Ora – ci dice Younes – non riesco più a uscire di casa, se vedo una pattuglia gelo. Ho attacchi di panico ogni mezz’ora. Prima non calcolavo neanche la loro presenza, come tutte le persone che lavorano, non hanno fatto niente, e vanno tranquille per la strada. I miei bambini sono rimasti segnati da quello che hanno visto, il più piccolo ora mi chiede di nascondermi quando vede la polizia perchè ha paura che vogliano portarmi via. Mia moglie è molto arrabbiata ma anche distrutta, come me…”.

Abbiamo chiesto a Younes di raccontarci quanto accaduto. Nell’intervista anche l’intervento di Francesco Catalano, presidente del Consiglio di quartiere centro-storico nord di Brescia, che più volta ha denunciato, anche ai nostri microfoni, comportamenti illegittimi e prepotenti da parte di agenti della Polizia Locale.  Ascolta o scarica.

Molte persone stanno esprimendo la propria solidarietà e vicinanza a Younes e alla sua famiglia, altre gli stanno raccontando di episodi simili dei quali sono a conoscenza.

L’Associazione Diritti per tutti e il CSA Magazzino 47, in contatto con Younes, hanno proposto di organizzare una manifestazione pubblica per denunciare collettivamente quanto di grave accaduto per mano della Polizia Locale.

Appuntamento sabato 24 ottobre alle ore 15 ai giardini pubblici di via Bevilacqua (quartiere Fiumicello, davanti alle Poste).

da Radio Onda d’Urto

 

Brescia: presidio in solidarietà con Younes e contro gli abusi di potere. La polizia locale provoca i manifestanti.

Almeno 150 persone hanno partecipato questo pomeriggio, sabato 24 ottobre, al presidio  in via Carolina Bevilacqua nel quartiere di Fiumicello di Brescia, in solidarietà con Younes, l’operaio 37enne che la settimana scorsa è stato vittima di un fermo ingiustificato e violento da parte di una pattuglia della Polizia Locale.

Dopo il presidio, verso le 17.15, i solidali si sono recati al Comando di Polizia Locale di via Donegani, affiggendo all’esterno lo striscione “Basta abusi di potere e violenze della Polizia. Solidarietà a Younes” e accendendo un paio di fumogeni.

Mentre i solidali stavano già lasciando la sede dei vigili urbani, alcuni agenti della Polizia Locale hanno provocato i manifestanti. Il racconto di Francesco, presidente del Consiglio di quartiere Brescia centro storico nord. Ascolta o scarica

IL PRESIDIO – Al presidio, durato dalle ore 15 alle ore 17, Younes – operaio 37enne – ha ricostruito i momenti del controllo avvenuto davanti ai suoi bambini, mentre stava facendo merenda al bar del quartiere e ha descritto il comportamento arrogante e violento dell’agente Andrea Pasini che ben si vede anche nel video ripreso dalla moglie del fermato; immagini diventate virali sui social con centinaia di migliaia di visualizzazioni.

La protesta è stata promossa dall’Associazione Diritti per tutti e dal Centro sociale Magazzino 47, a cui hanno aderito diverse altre realtà e associazioni come Kollettivo Studenti in Lotta, Kaos Valtrompia, Movimento Nonviolento, Associazione Via Milano 59, Non Una di Meno, Rete Antifascista.

Alcuni degli interventi al microfono aperto che si sono susseguiti durante il presidio di sabato 24 ottobre a Fiumicello, quartiere popolare alle porte occidentali della città di Brescia:

Umberto, dell’Associazione diritti per tutti, è intervenuto in apertura, che a denunciato le complicità di altri agenti con Pasini. Ascolta o scarica

 

 

Napoli: Cariche della polizia contro la manifestazione sotto la confindustria

  • ottobre 25, 2020

Ancora scontri a Napoli e cariche della polizia coperta dal governo nel pomeriggio di sabato 24 ottobre. Che gioca con i media sul “torbido”, non avendo alcuna soluzione che non sia l’assistenza alle imprese e la repressione per il resto della popolazione.

Anche stavolta l’obiettivo era chiaro e sacrosanto – la Confindustria – e in piazza c’erano lavoratori e disoccupati. Dopo un lancio di uova sulla facciata del palazzo della Confindustria, in Piazza dei Martiri sono partite diverse cariche della polizia contro la manifestazione convocata già da tempo dal sindacato Sicobas, cariche hanno spezzato il corteo che intendeva muoversi dalla piazza per dirigersi in piazza Plebiscito.

“Quattro morti sul lavori al giorno, questa è violenza”, è scritto su uno striscione. «Non siamo contro il lockdown, se serve – hanno detto i manifestanti – ma deve essere a salario pieno per lavoratori e disoccupati».

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Caricati i manifestanti a napoli, lavoratori e disoccupati resistono

Centinaia di persone al concentramento della manifestazione contro Confindustria a piazza dei Martiri nella giornata nazionale dei lavoratori e delle lavoratrici combattivi. Mentre molti manifestanti erano già in movimento, distanziati e in sicurezza, verso la Prefettura e la Regione i cordoni della polizia hanno impedito al resto del corteo di muoversi

Abbiamo resistito alla carica e ai lacrimogeni e abbiamo proseguito bloccando le strade della città. Dopo le minacce di lockdown, la crisi sociale dovuta all’emergenza, si utilizza l’emergenza per impedire a lavoratori e lavoratrici di manifestare in città. Un grosso pericolo per il corteo che ha tenuto le distanze per tutto il presidio mentre la gestione dell’ordine pubblico della Polizia ha compromesso la sicurezza delle persone in piazza

Non siamo carne da macello! A casa si, ma a salario pieno e con fondi per il sostegno al reddito, i trasporti, la sanità. Non pagheremo la vostra crisi!

Laboratorio Politico Iskra

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Piazza Dei Martiri a Napoli.  Sotto la sede di Confindustria. Poco più di cinquecento dimostranti pacifici – alcuni anche con bambini al seguito – protestavano contro le misure draconiane e antisociali del Presidente De Luca e del Governo centrale, legate alla diffusione della pandemia.

Misure che non prevedono ammortizzatori sociali ma solo fame alla fine del tunnel.

Nessun fascista. Nessun camorrista. Solo bandiere rosse.

Compagni della logistica, disoccupati e lavoratori dello spettacolo. E Polizia e Carabinieri caricano selvaggiamente. La verità è che il dissenso, sotto qualunque forma privi ad esprimersi, va represso e criminalizzato.

da contropiano

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Napoli, due giorni di manifestazioni contro la gestione dell’emergenza Covid

Pubblichiamo questa interessante riflessione di NapoliMonitor che ritorna sulle due giornate di mobilitazione appena trascorse e su cosa è emerso dalle piazze. Una ricostruzione un po’ più allargata delle premesse che hanno portato agli scontri di venerdì sera e uno sguardo prospettico sui giorni a venire. Al fondo alleghiamo anche gli audio delle interviste che Radio Onda d’Urto ha fatto ad alcuni compagni presenti nelle mobilitazioni del venerdì. Buona lettura!

“La miglior difesa è l’attacco”, la tattica del presidente della regione è ormai chiara. Più utilizza un lessico violento, più attinge al suo sarcasmo da comico di bassa lega, più minaccia, offende, insulta e più rivela tutta la sua paura di non riuscire a gestire una situazione sempre più complessa.

A dispetto dei proclami, nei mesi tra giugno e ottobre l’opera di De Luca si è caratterizzata per un sostanziale immobilismo. L’obiettivo primario era assicurarsi nelle elezioni di settembre altri cinque anni di mandato. Il governatore ha saputo volgere a suo favore l’andamento del Covid nella scorsa primavera, enfatizzando con ignobili teatrini le chiusure decise dal governo ed elargendo a pioggia sussidi che gli sono tornati più che utili per la rielezione. Certo, De Luca (e con lui i cittadini campani) è stato fortunato, perché da queste parti, fino all’autunno, il virus non ha avuto un impatto devastante come in altre regioni. Subito dopo le elezioni però è arrivato il momento di pagare dazio. E questi lunghi mesi di immobilismo ora costano cari a De Luca, ma soprattutto a tutti noi.

L’assenza di interventi incisivi su scuola e trasporti hanno portato a chiusure frettolose e irrazionali, contestate in piazza fin dal primo giorno sia dalle categorie danneggiate dai provvedimenti che da un comitato di genitori e insegnanti che è stato finora tra i pochi soggetti capaci di porre questioni politiche e non solo corporative. Le condizioni della sanità pubblica, dopo anni di tagli, commissariamenti e inefficienze, alimentano la paura di un aumento dei contagi, tanto che anche in questo settore sono state decise restrizioni come il blocco dei ricoveri programmati e delle prestazioni ambulatoriali. Il tutto, mentre le strutture messe in piedi per gestire i picchi autunnali della pandemia sono risultate pressoché inutili quando non coinvolte in inchieste della magistratura.

Uno scenario del genere ha messo in apprensione il governatore, tanto da costringerlo a difendersi, ancora una volta, attaccando. Ieri, nella sua diretta social (una conferenza stampa è un’altra cosa), De Luca ha utilizzato parole e modi ancora più estremi, accostando in modo del tutto pretestuoso cartelle cliniche e immagini di vita quotidiana, attaccando con toni spregevoli e minacciosi chi lo ha contestato nei giorni scorsi, e soprattutto annunciando una chiusura totale della regione. A questo punto – finalmente – c’è stata una reazione, che in parte era in preparazione già dopo l’annuncio del “coprifuoco”.

Venerdì sera sono partiti due cortei dal centro storico di Napoli in direzione della sede regionale a Santa Lucia. Uno era organizzato da giorni in opposizione al lockdown notturno, promosso da commercianti, imprenditori dei servizi, lavoratori della notte, tutte categorie già al loro interno estremamente variegate, che sarebbe superficiale liquidare come “di destra”. “Tu chiudi, tu paghi”, diceva lo striscione. L’altro, più spontaneo e messo in piedi perlopiù nella giornata di venerdì, si è concentrato nella piazza antistante l’università Orientale. “‘A salute è ‘a primma cosa, ma senza sorde nun se cantano messe”, diceva lo striscione. Nessuna delle due manifestazioni, tuttavia, avrebbe avuto la forza di portare così tanta gente in strada se non ci fosse stato l’autogol di De Luca, che con la minaccia di chiusura e una violenza verbale indigeribile da una popolazione stanca e preoccupata, ha contribuito a far degenerare la situazione. Centinaia di persone si sono unite ai due cortei grazie al passaparola via social, condividendo appena o ignorando del tutto le piattaforme delle manifestazioni. Sono scese in strada semplicemente per rabbia e paura del futuro, come dimostra la piega da riot urbano presa dalla parte finale delle proteste.


 

Inutile soffermarsi qui sulle reazioni dei media ufficiali, piccoli e grandi, che qualche ora prima non avevano esitato a utilizzare l’ultima esternazione di De Luca per rincarare le dosi di terrore e confusione che vomitano da mesi sui malcapitati lettori. Il refrain delle infiltrazioni camorriste è uno strumento pronto all’uso ogni volta che a Napoli la piazza si muove per davvero, esattamente come un tempo non lontano lo spauracchio del black block. Ultras, estremisti rossi e neri sono ormai ingredienti di contorno. Con la camorra invece si va sul sicuro. Editorialisti e ministri hanno impiegato la giornata di oggi a rassicurarci che l’anomalia partenopea è unicamente da imputarsi a questo malefico influsso. A noi interessa invece, e naturalmente non ci sorprende, essendo lo specchio abbastanza fedele della città precaria, l’eterogeneità della mobilitazione. E auspichiamo che crescano le occasioni, e la voglia reciproca, tra segmenti sociali solo apparentemente distanti, di ritrovarsi, confrontarsi e agire con obiettivi sempre meglio definiti e di più ampio respiro.

Oggi (ieri ndr) pomeriggio intanto ha avuto luogo un’altra manifestazione. Anche questa era già organizzata – da una piattaforma nazionale anticapitalista che è scesa in piazza in diverse città –, e anche questa si è giovata di una partecipazione probabilmente più numerosa del previsto, a causa degli eventi che si sono susseguiti dal pomeriggio di ieri. In piazza c’erano circa trecento persone, appartenenti a organizzazioni sindacali di base, movimenti di disoccupati e gruppi della sinistra antagonista. Il presidio è rimasto per quasi due ore a piazza dei Martiri. A un certo punto è stata lanciata vernice rossa contro il portone di Confindustria. Rispetto a ieri (venerdì ndr) le rivendicazioni hanno ribadito in maniera più esplicita una linea: se chiusura deve essere, che ci siano garanzie economiche per le fasce più deboli della popolazione.

Dopo il lancio di vernice, quando i manifestanti hanno provato a spostarsi in corteo, hanno trovato per due volte la strada sbarrata dalla polizia, finché sul lato nord della piazza i due schieramenti sono arrivati allo scontro. Archiviati i tafferugli, il corteo è continuato in maniera abbastanza tranquilla fino a piazza Amedeo, mentre nella piazza dei leoni i tuttofare del palazzo nobiliare che ospita Confindustria rimuovevano le tracce del passaggio dei manifestanti.

Stasera (ieri ndr) qualcuno potrebbe provare a violare nuovamente il coprifuoco, mentre per domani (oggi ndr) è stata convocata dai movimenti un’assemblea telematica per le 18:00. La gestione della pandemia, naturalmente non solo a livello regionale, può diventare spunto per rivendicazioni che abbiano come obiettivo un intervento sulle criticità del paese. Al di là di misure come i sussidi, le casse integrazioni straordinarie (alcune delle quali attendono ancora di essere pagate), il blocco dei licenziamenti e iniziative come i bonus sull’edilizia, pochissimo è stato fatto per promuovere riforme di ampio respiro, e d’altronde sarebbe difficile aspettarsele da queste forze politiche. La richiesta di garanzie per affrontare un’altra chiusura è sacrosanta, ma è indispensabile ora alzare il tiro per chiedere risposte sui bisogni primari: investimenti su casa, scuola e welfare di base, lavoro e sanità, un impegno che intervenga su prospettive di vita che vanno al di là dei semplici consumi.

Il caos di questi due giorni in città può essere un primo passo. Creare connessioni, senza autocensure o snobismi, tra organizzazioni, movimenti e persone che sono scese in strada, diventa prioritario. In caso contrario, quel che è accaduto potrà essere rapidamente derubricato come un semplice sfogo di rabbia e frustrazione. (napolimonitor)

Bologna: Volano manganellate per difendere la proprietà immobiliare

  • ottobre 25, 2020

A Bologna gli attivisti dei movimenti sociali e dei sindacati di base, hanno interrotto la manifestazione dall’Associazione Proprietà Edilizia annunciata per questa mattina in Piazza Maggiore in difesa del loro “diritto naturale alla proprietà privata” e per chiedere la cancellazione del blocco degli sfratti anche durante questa fase di grave emergenza sociale e sanitaria.  Una manifestazione di egoismo sociale odioso e inaccettabile. Prevedibile e visibile la presenza di alcuni fascisti in mezzo ai proprietari immobiliari.

Appena gli attivisti si sono avvicinati – invocando al contrario il blocco degli sfratti e la fine della speculazione sugli affitti – la risposta sono state le manganellate della polizia, schierata a difendere palazzinari e speculatori ben accompagnati dai fascisti.

“Questa città si regge sulle spalle di chi, come noi, vive di lavori precari e sfruttati pur di andare avanti. Questa città non è di chi possiede immobili e specula sulla nostra vita. Siamo qui per dimostrarlo”.

da Contropiano

 

Firenze: Brutale sfratto di una donna disoccupata dalle case popolari

  • ottobre 23, 2020

Un fatto gravissimo si è consumato ieri mattina ai danni di una donna abitante in una casa popolare. Antonella; colpevole di non riuscire a pagare l’affitto al comune perché disoccupata e fragile, rimasta sola dopo la morte della madre.

Invece di essere aiutata ha subito la decadenza dell’assegnazione, inutili nel tempo certificati e redditi inesistenti, tentativi di accordo per sanare la morosità con casa spa l’ente gestore di questo ignobile carrozzone che è diventato il comune di Firenze.

Ieri mattina verso le 9:00 ( forse prima disturbavano i condomini) si è vista arrivare in casa una squadra di vigili, (un corpo speciale in borghese) che le intimava di uscire immediatamente perché era uno sfratto esecutivo, contattati telefonicamente e in viva voce abbiamo obbiettato che non potevano eseguire lo sfratto in quanto come da decreto ministeriale gli sfratti esecutivi sono bloccati fino al 31 Dicembre 2020.

Antonella si è opposta ed è successo l’impensabile: le è stato spruzzato in faccia dello spray al peperoncino, è stata ridotta all’impotenza ammanettata e portata via in pigiama e ciabatte. Da quel momento per noi Antonella è scomparsa! Nessuna informazione, nessuna notizia ne di dove fosse ne di come stesse di salute. Sembrava di vivere in un brutto film argentino, per tutta la giornata ci ha pervaso un senso di incredulità e irrealta`.

Solo grazie alla nostra tenacia nel cercarla e nel contattarla telefonicamente soltanto oggi verso le 12:00 l’abbiamo raggiunta, piangente e in stato di shock ha detto di essere stata rilasciata da una cella del comando dei vigili, di essere stata privata del cellulare ed altre poche cose che avveva, compresa la canina portata al canile, dopo forse un processo per direttissima, l’hanno scaricata senza un soldo in pigiama e ciabatte, e senza casa in piazza stazione, tanta è stata la disperazione e la confusione che non sapeva cosa le fosse realmente successo.

Dal nostro punto di vista sono accaduti troppi illeciti, dalla violazione del decreto di legge, alla violazione di ogni diritto umano, personalmente hanno fatto tornare in mente i racconti dei nonni, quando mio nonno sparì per tre giorni preso e rinchiuso a Villa Triste, sono tornati alla memoria racconti del peggior periodo fascista, perpetrati oggi da chi si spaccia per sinistra.

Vogliamo denunciare perché vogliamo risposte, perché non vogliamo ancora credere che questa sia la realtà, vogliamo chiedere se questo è il metodo per reperire alloggi in vista del nuovo bando erp in prossima uscita, vogliamo che ci sia reso conto del fatto che da una parte si continua a svendere patrimonio pubblico regionale e comunale sul territorio senza riconvertirlo e impiegarlo per alloggi popolari dei quali i cittadini di Firenze hanno fame. Non può essere questa la risposta e non vogliamo permetterlo.

Non vogliamo una dittatura amministrativa, non vogliamo una dittatura, e vogliamo ricordare a questi “signori” che forse si sono montati un po troppo la testa che sono al servizio dei cittadini e non contro, che mangiano con i nostri soldi ( come si può dire nel più becero dei modi) che sono solo nostri servi e non i nostri padroni. Miti e quieti come sempre?

Movimento di lotta per la casa -Firenze

 

  a Torino,scene di ordinaria repressione

  • ottobre 23, 2020

Da anni Torino è un laboratorio nelle tecniche di repressione giudiziaria dei movimenti sociali. Alle molte tessere del mosaico se ne aggiungono due: l’applicazione massiccia del divieto di dimora nella propria città e l’indiscusso protagonismo della polizia nel processo, fino ad esiti paradossali.

Il 13 febbraio si teneva a Torino, al Campus Einaudi, il convegno «Fascismo-Colonialismo-Foibe. L’uso politico della memoria per la manipolazione delle verità storiche», promosso, tra gli altri, dall’ANPI. Un volantinaggio di critica al convegno effettuato nel cortile del Campus dai giovani del FUAN (il movimento universitario legato a Fratelli d’Italia), scortati e accompagnati da un considerevole numero di esponenti delle forze dell’ordine, provocava la protesta di molte decine di studenti che, prima, tentavano di contestare il volantinaggio, poi, si opponevano all’arresto di due tra loro e, infine, in due distinte occasioni, entravano nell’aula concessa dall’università al FUAN, dove danneggiavano gli arredi e scrivevano sui muri slogan antifascisti. A seguito di tali fatti il giudice per le indagini preliminari di Torino ha disposto, in prossimità dell’inizio delle ferie giudiziarie, 19 misure cautelari (3 arresti domiciliari, 7 divieti di dimora dal comune di Torino, 9 obblighi di presentazione quotidiana alla polizia giudiziaria), due delle quali eseguite solo all’inizio di ottobre, nei confronti di altrettanti manifestanti (cfr. https://volerelaluna.it/materiali/2020/02/20/torino-reato-di-antifascismo/ e https://volerelaluna.it/territori/2020/10/16/torino-la-repressione-continua/).

Vale la pena di ragionare su alcuni aspetti dell’ordinanza applicativa (confermata a inizio settembre, con alcuni modesti ritocchi, dal tribunale del riesame) perché consentono di aggiungere qualche ulteriore tassello al modello di repressione giudiziaria dei movimenti sperimentato da anni a Torino (https://volerelaluna.it/talpe/2019/08/13/repressione-giudiziaria-e-movimenti/).

Nell’ordinanza e, ancora prima nella richiesta del PM e nelle annotazioni di polizia giudiziaria, i fatti sono ricostruiti in modo fortemente sovradimensionato e con modalità unidirezionali, che hanno consentito di trasformare delle proteste quasi solo verbali in altrettanti episodi di resistenza collettiva e i tentativi di non fare portare via dalla polizia due studenti, realizzati con il posizionamento di qualche cassonetto sul sedime stradale, in feroci agguati alle forze dell’ordine. Ma ci sono due ulteriori aspetti che merita evidenziare.

1.

Una delle criticità più evidenti dell’ordinanza riguarda la scelta di applicare con grande disinvoltura la misura del divieto di dimora nel Comune di residenza degli indagati.
L’allontanamento dalla propria città degli oppositori politici è una strategia repressiva che attraversa la storia giudiziaria italiana, con apposite misure, dal periodo liberale al fascismo. Oggi la repubblica democratica e la legislazione processuale penalistica hanno adottato un terminologia diversa e gli istituti incentrati sull’allontanamento dal comune di residenza, nella loro applicazione concreta, non hanno la ferocia repressiva del fascismo; ne condividono, però l’assoluto disinteresse verso l’esistenza di chi li subisce. Il principale strumento usato in questi anni è stato il foglio di via obbligatorio, una misura di prevenzione emessa dal questore, elargita con larghezza in tutte le situazioni di conflitto (in Val di Susa se ne contano numerose decine) con modalità che rivelano una predilezione a dilatare gli ambiti della discrezionalità amministrativa, senza curarsi troppo dei presìdi costituzionali in tema di libertà persona e di libertà di circolazione sul territorio nazionale. Sul piano più strettamente penale, si colloca il divieto di soggiorno, una misura di prevenzione, depurata nel corso degli anni degli aspetti più incostituzionali, applicata inizialmente agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose (legge 31 maggio 1965, n. 575), poi allargata, con la legge Reale del 1975, anche a forme di pericolosità politica e, infine, estesa a tutti i possibili destinatari della misura della sorveglianza speciale. Con la riforma del codice di procedura penale del 1988, è stato, poi, inserito nel novero delle misure coercitive, accanto a quelle custodiali, il divieto di dimora. Originariamente, la possibilità per il giudice di dotarsi di una gamma estesa di misure di natura cautelare, diverse tra loro e adattabili alle diverse situazioni concrete, rispondeva a un’esigenza di maggior articolazione del sistema, con la possibilità di applicare misure diverse dal carcere per far fronte ai casi di minor gravità. Nei fatti si è determinata, invece, una sorta di espansione ipertrofica che ha dilatato a dismisura il loro campo di applicazione e, così, le misure non restrittive vengono spesso emesse anche laddove, in passato, nessuna misura sarebbe stata utilizzata.
Nel procedimento in esame sono state applicate ben sette misure del divieto di dimora a Torino ad altrettanti indagati, la maggioranza dei quali nati e cresciuti in città. L’oculatezza della valutazione del giudice è plasticamente rappresentata dal caso di R., studentessa universitaria di 22 anni, nata a Torino, dove ha sempre abitato e dove viveva, al momento dell’esecuzione della misura, con il padre e due fratelli più piccoli.
R. è incensurata e priva di carichi pendenti. Di punto in bianco si trova a esser allontanata dalla sua città (senza che la famiglia abbia risorse economiche sufficienti per pagarle un affitto e mantenerla fuori Torino) e si vede privata della possibilità di studiare, di frequentare i propri familiari e le proprie relazioni affettive ed amicali. La sua vicenda sembra una delle tante misure applicate verso gli antagonisti politici e, invece, in breve tempo assume un aspetto ben più drammatico. Dopo pochi giorni, infatti, suo padre muore d’infarto e R. si trova improvvisamente da sola con due fratelli più piccoli. Il difensore presenta immediatamente una richiesta di revoca della misura alla luce della nuova angosciante condizione dell’indagata che, come è evidente, ha la necessità di ricongiungersi urgentemente con i suoi cari, sia per potersi reciprocamente sostenere dal punto di vista affettivo, sia per occuparsi di tutte le tristi incombenze che seguono al decesso del padre. Nonostante il parere favorevole alla revoca dato dalla Procura inquirente, l’istanza viene respinta. Dietro consunte formule di stile, il vero nucleo forte del pensiero del giudice, che definisce la misura applicata «presidio minimo per fronteggiare le esigenze cautelari», rimanda alla pericolosità dell’indagata per le gravi condotte tenute. La logica di fondo sembra essere questa: hai protestato, hai creato disordine sociale e allora paghi sino in fondo la tua scelta (e tutto ciò che ne deriva sul piano dell’organizzazione della vita personale e familiare), nonostante tu sia incensurata. È una giustizia che non arretra rispetto alla scelta fatta, che mostra la sua faccia di indifferenza e noncuranza del dolore altrui.
Ora, anche a volere miseramente restare sul piano del diritto, non si può non rilevare che vi è una norma nella Costituzione che impone che la pena (ma anche, secondo quella che è l’interpretazione condivisa, la misura cautelare) non sia contraria al senso di umanità. E che, nel nostro codice di rito, l’applicazione delle misure cautelari è regolata dai principi di adeguatezza e proporzionalità, che devono guidare l’esercizio della discrezionalità del giudice e gli impongono di parametrare la misura alla natura e al grado delle esigenze cautelari da tutelare, in riferimento alla situazione soggettiva dell’indagato (e la morte del padre per una ragazza di 20 anni è un evento talmente straordinario e drammatico che richiede un ripensamento del concreto bilanciamento dei valori che vengono in rilievo in sede cautelare, imponendo, nella scelta del tipo di misura da applicare, il minor sacrificio possibile degli spazi di libertà e dei diritti fondamentali della persona). Non solo, ma l’art. 8 della Convenzione EDU «salvaguarda l’unità familiare, intesa quale vincolo tra genitori e figli o tra parenti legati da consanguineità e convivenza effettiva» e «impone allo Stato di contenere le limitazioni all’esercizio del diritto alla famiglia e ai rapporti familiari» (così, Cassazione penale, sez. I, 29 settembre 2015, n. 48684). Come si vede la decisione del giudice si colloca in un contesto normativo che avrebbe imposto scelte diverse. Racconta però, meglio di tante analisi fatte nel corso degli ultimi anni sui processi di criminalizzazione dei movimenti, i rigidi meccanismi su cui si fondano le valutazioni cautelari per reati legati al conflitto sociale.

2.

Il secondo aspetto che merita di essere segnalato riguarda, ancora una volta, l’indiscusso protagonismo della polizia (che, come sempre, si accompagna a un notevole attivismo sul piano mediatico). È la polizia, e più in particolare la Digos, a definire cosa è reato e cosa non lo è, a qualificare giuridicamente le condotte di rilievo penale, a selezionare la platea degli indagati.
Sotto il primo profilo, particolarmente significativo è il travaso, anche terminologico, che connota la ricostruzione dei fatti. Ad esempio, la prima fase della vicenda è connotata da modeste proteste verbali proferite da un ristretto gruppo di studenti che si limita a lanciare degli slogan uditi in centinaia di manifestazioni («Via via fascisti e polizia»). Tali proteste vengono inopinatamente descritte come tentativi di aggressione e arbitrariamente sussunte nell’ambito di un reato concorsuale di resistenza a pubblico ufficiale. È sufficiente guardare le immagini acquisite agli atti del procedimento per comprendere come si tratti di ben altro. Eppure le descrizioni, che transitano senza soluzione di continuità dalle annotazioni di polizia alla richiesta di misura cautelare del PM e, infine, alle ordinanze emesse dal gip e dal tribunale del riesame, parlano esplicitamente di «tentativi di sfondare il cordone dei poliziotti».
Ma è, soprattutto, il sapere della polizia, accumulato in anni di osservazioni, monitoraggi, schedature, che costituisce il presupposto per l’applicazione delle misure e la valutazione delle esigenze cautelari, il linguaggio e l’argomentazione di cui si dotano gli altri protagonisti istituzionali del procedimento.
La Procura (o, meglio, il pool di magistrati che si occupa del conflitto sociale e che ha la curiosa denominazione di «Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Reati in occasione di manifestazioni pubbliche», con una suggestiva equiparazione tra le due locuzioni) appare come una sorta di esecutrice materiale delle indicazioni ricevute dalla Digos, la sua longa manus che veicola all’interno del processo le istanze repressive e preventive che dalla stessa provengono, con un curioso ribaltamento dell’impianto codicistico che la vedrebbe, invece, protagonista delle indagini e che assegna un ruolo funzionalmente subordinato alla polizia. Emblematica sotto tali profili è l’istanza formulata dal PM, su indicazione della Digos, poi non accolta dal giudice, di estendere i proposti divieti di dimora oltre il Comune di Torino. Il PM ha, infatti, richiesto che il divieto di dimora da imporre ad alcuni tra gli indagati ricomprenda anche alcuni Comuni della Val di Susa, posto che, secondo le annotazioni di polizia, gli stessi risultavano attivi nel movimento No Tav. È una logica, questa, che trasforma la misura cautelare da strumento focalizzato sul processo ‒ funzionale ad evitare che il trascorrere del tempo possa provocare un pericolo per l’accertamento giudiziario o possa determinare l’aggravamento delle conseguenze del reato o l’agevolazione di altri reati ‒ a grimaldello di prevenzione generale, destinato alla neutralizzazione delle attività politiche dell’indagato.
Parimenti, per il giudice prevale una logica di affidamento quasi integrale all’impianto tracciato dalla polizia giudiziaria E ‒ si badi bene ‒ si tratta di affidamento che riguarda non solo la ricostruzione storica della vicenda (fondata esclusivamente su video-riprese effettuate dalla polizia scientifica montate a uso e consumo dell’ipotesi d’accusa) ma la stessa valutazione cautelare. In particolare, nel momento in cui ha dovuto valutare la sussistenza di specifiche e attuali esigenze cautelari e i rischi di commissione di reati della stessa specie, il giudice si è interamente affidato non ai certificati penale e a quelli dei carichi pendenti (quasi tutti privi di iscrizioni), ma alle cosiddette schede della Digos, in cui sono annotate anche le denunce riportate dai singoli indagati, senza che venga data notizia dei successive verifiche da parte dell’autorità giudiziaria.
Tutto ciò comporta, come è evidente, il rischio di clamorosi fraintendimenti ed errori. Ad esempio, l’ordinanza in esame dà atto che uno degli indagati, A., «è già stato sottoposto a misura cautelare per fatti della medesima indole di quelli per cui si procede e, ciononostante, ha dato prova di non averne percepito l’effetto deterrente. Trattasi invero di soggetti – la C. come l’A. ‒ indifferenti alle regole della civile convivenza, convinti che le loro battaglie sociali o politiche possano essere condotte con l’uso della violenza o, comunque, che le stesse costituiscano giustificazione per qualunque condotta essi ritengano di tenere». Peccato che per quella vicenda A. fosse stato assolto dal tribunale per non aver commesso il fatto e, dunque, al più era la misura in allora imposta (della durata di una settimana di carcere e di qualche settimana di arresti domiciliari) ad essere risultata incongrua e ingiustificata e non l’indagato refrattario a fare i conti con precedenti esperienze giudiziarie.

Due esempi soltanto. Tessere di un mosaico che danno il segno di come funziona la giustizia a Torino, almeno in sede cautelare, quando di mezzo c’è il conflitto sociale.

Avv.Claudio Novaro



 

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